Le maggiori tradizioni natalizie, le loro origini, il loro significato e la vera magia che racchiudono
Ogni anno arriviamo a fine novembre e in molti iniziano ad appendere il Calendario dell’Avvento per contare i giorni che li separano da Natale. L’8 dicembre si comincia a rimettere mano agli scatoloni degli addobbi che teniamo in garage, e nell’arco di qualche giorno si costruisce il Presepe, si appende una corona alla porta, si attaccano le luci al balcone, si decora l’albero e si addobba il resto della casa. I mercatini che vendono artigianato di ogni materiale, dimensione e cultura fioccano in negozi e piazze di molte città, qualcuno corre ad acquistare una Stella di Natale che spera di far durare almeno fino all’Epifania, e nell’arco del mese c’è chi visita negozi su negozi per trovare un regalo da fare alle persone a cui tiene di più.
Da quando è esplosa l’ennesima moda consumistica del Black Friday tutto questo comincia ancora prima, anche dai primi di novembre, ma fermiamoci tutti un secondo: ma perché si fanno tutte queste cose? Perché è Natale, ovviamente, ma appunto: perché è Natale? Quali sono l’origine e il significato di questa festa e di tutte queste tradizioni? Perché ricopriamo un abete di decorazioni, ci scambiamo regali e raccontiamo ai bambini che Babbo Natale farà il giro del mondo per portare loro dei doni?
Non vi affrettate a rispondere che è per festeggiare la nascita di Gesù, perché il Cristianesimo è venuto molto tempo dopo. La verità è che le origini di queste tradizioni scavano di secoli o millenni nel passato “avanti Cristo”, passando fra l’astronomia e le tradizioni di molti popoli. Per arrivare, però, ad un traguardo comune: la vera nascita che festeggia il Natale è in realtà una rinascita, quella del Sole e di ognuno di noi.
Perché si festeggia il Natale proprio il 25 dicembre? Tutta questione di astronomia, religione e politica
Le motivazioni astronomiche: il solstizio d’inverno

La Terra, nell’arco di un anno, compie un giro intorno al Sole seguendo un’orbita a forma di ellissi. Per noi che siamo sul pianeta, sembra piuttosto che sia il Sole a ruotare intorno alla Terra, e ad un’attenta osservazione si può notare che ogni giorno, ad una stessa ora, la sua altezza rispetto all’orizzonte cambia: aumenta da dicembre a giugno e diminuisce da giugno a dicembre (per l’emisfero nord). Il cosiddetto “solstizio” corrisponde allora al momento in cui la sua altezza è massima (intorno al 21 giugno, solstizio d’estate) oppure minima (intorno al 21 dicembre, solstizio d’inverno).
Sempre ad un’attenta osservazione, inoltre, si può notare che, per circa tre giorni, a partire dal solstizio, la sua altezza sembra rimanere la stessa, invariata: è un effetto dovuto al moto di rivoluzione della Terra, che in quei giorni sta arrivando al punto più vicino (perielio, 3 gennaio) o più lontano dal Sole (afelio, 2 luglio) e che quindi sta per invertire la sua orbita; non per niente il termine “solstizio” deriva dal latino solstĭtĭum, composto da “sōl” (Sole) e “sistĕre” (fermarsi), perciò “Sole che si ferma”. Nel caso del solstizio d’inverno, il momento in cui si può ricominciare a vedere l’altezza del Sole che aumenta corrisponde al 25 dicembre (nell’emisfero nord).
Tutto questo, già in tempi antichi, era oggetto di culto e festività presso tantissime popolazioni e il motivo è ovviamente legato al Sole: fin dalle sue origini, l’uomo si è sempre reso conto che, se insieme all’acqua, c’è anche luce e calore, e dunque il Sole, la vegetazione è rigogliosa e la terra è fertile; per di più, da sempre, noi umani siamo esseri diurni, capaci di vedere e gestire le nostre attività al meglio solo in presenza di luce. Questo per dire che è stato facile e naturale, per tante civiltà, arrivare a sviluppare un culto nei confronti del Sole come simbolo di vita, rinascita, abbondanza e sicurezza, ed è stato anche spontaneo associare una festività ad un evento come il solstizio d’inverno: segna il momento in cui, dopo la notte più lunga dell’anno, il Sole torna ad alzarsi e le ore di luce ad aumentare.
Le motivazioni religiose: Yule, Saturnalia e Sol Invictus, il Natale prima del Natale
Di festività in questo senso ne esistono molte presso tante culture del mondo, ma quelle di Yule, Saturnalia e Sol Invictus sono le tre che hanno contribuito a creare il Natale che oggi conosciamo.

Yule era la festa del solstizio d’inverno fra le popolazioni germaniche pre-cristiane, festeggiata ancora oggi fra le comunità neopagane intorno al 21 dicembre. Insieme ad Ostara (20 marzo), Litha (21 giugno) e Mabon (22 settembre), era appunto una delle quattro festività associate ai solstizi e agli equinozi, e dunque al ciclo delle stagioni. Non sappiamo di preciso in che cosa consistesse la celebrazione, ma fonti successive come la saga “Heimskringla” (1225) ne parlano di grandi festeggiamenti, sontuosi banchetti, falò e sacrifici di animali. Quello che è certo è che molte delle tradizioni che la caratterizzavano, come vedremo fra poco, erano praticamente identiche a quelle del Natale attuale; fra l’altro, un po’ come oggi consideriamo quello del Natale come il periodo “più magico” dell’anno, così il periodo di Yule, fatto di notti fra le più lunghe e le più fredde, era considerato quello in cui l’attività soprannaturale toccava il suo apice.
Ai tempi della Roma antica, invece, il 15 dicembre si festeggiavano i Saturnalia per celebrare la costruzione del Tempio di Saturno nel 497 a.C.. Dopo la riforma del calendario introdotta da Giulio Cesare (46 a.C.), la festività si ritrovò posticipata al 17 dicembre e in seguito venne estesa a tutti i giorni fra il 17 e il 23 dicembre. Questa estensione, probabilmente, fu dettata da due ragioni: uno, per includere nella festività anche il solstizio d’inverno, e due, per includerci anche l’ingresso del Sole nella costellazione del Capricorno, che era considerata casa astrologica di Saturno, dio dell’agricoltura, dell’abbondanza e della dissolutezza. Inoltre, un po’ come nel caso dei popoli germanici, i Romani credevano che, nel periodo invernale, con una terra incolta a causa del clima, le divinità infernali fossero più libere di vagare per il “mondo di sopra”. Ecco allora che celebrare i Saturnalia voleva essere un modo per placare queste divinità e per festeggiare il ritorno del Sole, dunque il ritorno della terra fertile, e quindi anche Saturno che la rappresentava.

Infine abbiamo il culto del Sol Invictus (cioè “Sole Invitto”), introdotto a Roma dall’imperatore Aureliano nel 274. Un culto nei confronti del Sole, sotto varie forme, era già diffuso a Roma ben prima di Aureliano: la stessa espressione “sol invictus” era un appellativo usato per varie divinità solari come Helios, El-Gabal, o Mitra; divinità romane come Giove e Apollo erano associate o identificate con il Sole; l’imperatore Eliogabalo (218-222) aveva già tentato di introdurre il culto della sua persona, a sua volta identificata con il dio sole El-Gabal di Emesa, la città siriana da cui proveniva. Ma nel 272, proprio grazie all’appoggio della città-stato di Emesa, Aureliano sconfisse il Regno di Palmira, così, nel 274, decise di importare a Roma il culto del Sole già presente nella città: fece edificare un tempio, istituì un clero apposito e fissò al 25 dicembre la festività del “Dies Natalis Solis Invicti”, cioè “Giorno Natale del Sole Invitto”.
Le motivazioni politiche: l’affermazione del Cristianesimo
Oggi si dà per scontato che la data di nascita di Gesù sia e sia sempre stata senza ombra di dubbio il 25 dicembre, ma la verità è che non conosciamo né il giorno, né il mese, né l’anno esatti. Dai Vangeli di Matteo e Luca sappiamo solo che sarebbe nato durante il regno di Cesare Augusto (63 a.C. – 14 d.C.); un primo riferimento al 25 dicembre compare intorno al 204 in uno scritto del teologo Sant’Ippolito; fra i primi cristiani stessi esistevano varie tradizioni, come il 1° gennaio, il 5 gennaio, il 6 gennaio, il 28 marzo, il 20 maggio o il 18 novembre.

Quello che è certo, però, è che un’associazione simbolica fra Gesù e il Sole è sempre stata presente. Nel Vangelo di Luca (Lc 1, 79-79) si parla di una misericordia di Dio come un Sole che sorge “per rischiarare quelli che stanno nelle tenebre e nell’ombra della morte” e si presenta Gesù come “luce per illuminare le nazioni” (Lc 2, 32). Il Vangelo di Giovanni (Gv 1, 49 e Gv 8, 12) lo utilizza spesso come contrapposizione fra luce e tenebre, mentre Matteo dice che “il suo volto brillò come il sole e le sue vesti divennero candide come la luce”. I cristiani dei primi tre secoli, anche per non incorrere nel rischio di persecuzione e condanna, usavano spesso simbologie pagane come la corona di raggi del Sol Invictus o il Carro Solare per alludere al Messia; per di più, allora come oggi, consideravano la domenica come il giorno della sua Resurrezione, e si dà il caso che quel giorno fosse già ritenuto dai Romani “dies Solis”, cioè “Giorno del Sole”.
Fino a che, in mezzo a tutta questa confusione, nel 313 l’imperatore Costantino emana l’Editto di Milano, con il quale viene concessa libertà di pratica a tutte le religioni dell’Impero, Cristianesimo compreso. Nel 321, è ancora Costantino a stabilire che il “dies Solis” debba diventare giorno di riposo e festività – cosa che ha il secondo fine di consentire anche ai cristiani di osservare i propri riti. Mentre nel 380, con l’Editto di Tessalonica, Teodosio I dichiara addirittura il Cristianesimo come nuova religione di Stato. Insomma, il Cristianesimo e la Chiesa in particolare acquisiscono un potere e un’influenza sempre maggiori, la nuova religione si mescola, si sovrappone e si sostituisce progressivamente a quella vecchia; come conseguenza inevitabile, i conflitti fra cultura pagana e cristiana che già esistevano si acuiscono ancora di più, e adesso sembra che la bilancia cominci a pendere dalla parte della seconda.

E che cosa succede, fin dalla notte dei tempi, quando due culture si scontrano? O cercano di convivere, o una si impone sull’altra. E se una si impone, come fa ad evitare che la sua autorità venga minacciata dall’altra? Una prima opzione è sopprimere l’altra cultura, e infatti ci sono state le persecuzioni contro i pagani. Ma un metodo ancora più efficace è quello di assimilarla: il Sole, il solstizio d’inverno e il 25 dicembre erano già festeggiati da secoli da parte di molte culture e credenze pagane; l’associazione simbolica fra il Messia e il Sole era diffusa e accettata da un tempo altrettanto lungo; già allora nessuno riusciva a concordare su quale fosse la vera data di nascita di Gesù; e adesso il Cristianesimo stava cominciando a prendere piede sull’antica religione. Ed ecco allora che, in modo del tutto arbitrario, ma anche attentamente calcolato, si decise di fissare la sua nascita proprio al 25 dicembre. C’è chi dice che fu per opera di papa Giulio I (? – 352), chi di Leone Magno (390 – 461), ma ciò che conta è l’intento con cui è stato fatto: presentare Gesù ai pagani come l’unico “vero Sole” da venerare, quello che, inconsapevolmente, avevano venerato sotto “falsi nomi” fino a quel momento; e, allo stesso tempo, lasciare inalterata la loro vecchia tradizione di festeggiarlo intorno al solstizio d’inverno. Insomma, i due piccioni con una fava più azzeccati di tutta la storia, che in breve tempo avrebbero garantito una diffusa conversione dei pagani e quindi un potere sempre maggiore per le autorità ecclesiastiche.
Dall’albero a Babbo Natale: le vere origini delle maggiori tradizioni
Le tradizioni principali che conosciamo del Natale hanno subito una sorte identica a quella della data, nel senso che erano tradizioni preesistenti, tutte riconducibili a Yule o ai Saturnalia, che sono state assimilate e reinterpretate a favore del Cristianesimo.
L’abete è un eterno Albero della Vita

L’usanza di decorare alberi è diffusa fra varie culture del mondo sin da tempi antichi, e nasce dal culto nei confronti di questi alberi in quanto simbolo dell’Albero della Vita: vedi Yggdrasill fra i Norreni, l’Albero della Conoscenza fra gli Ebrei, il Fusang della Cina, il Wacah Chandi fra i Maya, o il Nookomis Giizhig fra gli Ojibway; tutti alberi mitologici che custodiscono la fonte della conoscenza, connettono il Cielo con l’Oltretomba, o che formano l’impalcatura stessa dell’universo. L’usanza di decorare in particolare degli alberi sempreverdi come abeti o pini, invece, risale alle popolazioni celtiche o a quelle del Nord Europa: vista la loro capacità di mantenere i loro aghi saldi e verdi anche durante gli inverni più rigidi, questi alberi erano considerati come simboli di immortalità, della vita che persiste, che resiste anche di fronte alle più dure avversità per poi rinascere quando sono passate.
Si capisce bene, allora, quanto sia stato facile associare questi alberi al culto del Sole e ad una festività come Yule: così come con la festa in sé si celebrava il ritorno del Sole, allo stesso modo si decorava un albero sempreverde, simbolo di immortalità, con dolci, frutta, candele o statuette di animali, perché volevano rappresentare la fertilità della natura che si sperava facesse ritorno.
Con la diffusione del Cristianesimo, anche questa usanza venne assorbita e tutta reinterpretata, così l’albero divenne simbolo dell’Albero dell’Eden o del legno della Croce; le candele e le luci in generale diventarono metafora di Gesù come “luce del mondo”; una stella o un angelo si iniziarono a mettere sulla punta per rappresentare la Stella di Betlemme o l’arcangelo Gabriele.
Il vischio e l’agrifoglio, reminiscenze di uno Yin-Yang occidentale
Insieme all’abete, il vischio e l’agrifoglio sono fra le piante protagoniste delle decorazioni di Natale. Il primo si appende spesso al soffitto o all’architrave delle porte, per via dell’usanza di baciarsi se qualcuno ci capita sotto; il secondo viene usato per creare ghirlande e festoni, composizioni e centro tavola. Ma da dove, da quando e da chi derivano questi simboli e queste tradizioni?

Il vischio è una pianta parassita sempreverde, che cresce direttamente sugli alberi senza piantare radici al suolo. Preferisce piante latifoglie e caducifoglie, soprattutto la quercia, e matura le sue bacche proprio in pieno inverno. Pare che anche studi scientifici moderni abbiano evidenziato che, in effetti, le querce siano fra le piante che attirano di più i fulmini; i Celti non avevano la scienza, ma l’osservazione aveva condotto anche loro alla stessa conclusione, e per questo la quercia era considerata pianta sacra: il fulmine era manifestazione divina, quindi la quercia, così spesso “baciata” dal “potere divino”, era vista come pianta magica, come confine fra mondo materiale e mondo spirituale. Perciò il vischio era un sempreverde, in pieno inverno dava i suoi frutti e sopravviveva su alberi che perdevano le foglie, poteva fare a meno delle radici e cresceva su una pianta come la quercia: tutto questo la rendeva allora una pianta magica, “figlia del fulmine”, simbolo di resistenza e dotata di grandi poteri curativi. Per di più, dato che il colore delle sue bacche e del loro succo ricordava lo sperma, era anche associato al Principio Maschile della natura e alla fertilità; e infatti si pensa che derivi proprio da qui, da questa associazione con la fecondità, l’usanza di baciarsi sotto un ramoscello di vischio.
Detto così, può sembrare che il suo simbolismo non abbia niente a che fare con il Cristianesimo, e infatti è vero. Ma, così come tante altre, era una tradizione talmente radicata che la Chiesa non trovò altro modo per disfarsene se non quello di assorbirla. Come? Giocando appunto sui simboli: nella mitologia dei popoli germanici, Baldur è un dio associato alla luce, che un giorno viene ucciso da una freccia in legno di vischio e che, in futuro, al termine del Ragnarök, tornerà in vita e costruirà un nuovo mondo dalle ceneri di quello appena finito; allo stesso modo, Gesù è una divinità solare, che è stata uccisa su di una croce fatta di legno e che, alla fine dei tempi, tornerà di nuovo per portare l’umanità alla salvezza. L’insinuazione è molto chiara, anche se molto sottile: i “poveri” pagani, nella loro “innocente ignoranza”, nel venerare un dio della luce ucciso con il legno di una pianta e destinato a risorgere, non hanno fatto altro che venerare inconsapevolmente proprio Gesù. Ecco quindi pronta la scusa per mantenere l’usanza del vischio, assimilarla nella nuova religione, e allo stesso tempo abbindolare i pagani e farli avvicinare alla nuova fede.

E che dire dell’agrifoglio? Anche questa è una pianta sempreverde, le sue caratteristiche bacche rosse crescono solo intorno a ottobre/novembre ma, siccome in questa fase hanno un sapore piuttosto amaro, diventano mangiabili soltanto in pieno inverno. E allora il simbolismo era già pronto: l’essere sempreverde rappresentava immortalità, il rosso delle bacche che ricordava il sangue mestruale e il fatto che maturassero nel periodo più buio dell’anno erano simbolo di Principio Femminile e fertilità, e il fatto che solo nel periodo più freddo fossero mangiabili lo ha reso anche simbolo dell’inverno.
Con l’arrivo del Cristianesimo, ovviamente, tutta questa poesia ha fatto la fine di polvere al vento, e così le sue foglie spinose sono diventate simbolo della Corona di Spine di Gesù, mentre le bacche quello del sangue che ha rigato la sua fronte. Tutti e due simboli che ricordano molto di più la sua morte e la sua Resurrezione, e quindi il periodo della Pasqua piuttosto che quello del Natale e della sua nascita; ma è stato proprio questo a renderlo ideale per il periodo natalizio anche agli occhi della Chiesa, perché porta con sé il simbolo della “rinascita”, così come la luce del Sole/Gesù “rinasce” dal 25 dicembre dopo i giorni più bui.
Una corona per l’eterno ritorno
Oggi la chiamano “Corona dell’Avvento”, ma anche questa usanza affonda le sue origini nella celebrazione di Yule, nel ciclo delle stagioni. Veniva realizzata con rami di abete o di pino, o con foglie di agrifoglio, perché portavano con sé le stesse simbologie di immortalità, fertilità e inverno che abbiamo visto prima. Erano assemblate in forma circolare perché il cerchio, figura senza inizio né fine, è il simbolo dell’eterno ritorno, della ciclicità della natura, della “ruota” delle stagioni. Stava quindi a rappresentare la vita che si rinnova e la speranza che, ancora una volta, il ciclo del tempo sarebbe finito e ricominciato.

Anche nel mondo Greco-Romano erano realizzate queste ghirlande, a volte come simbolo di onorificenza o vittoria, ma anche come simbolo dei raccolti. Addobbare la casa con queste ghirlande nel periodo dei Saturnalia, a maggior ragione se fatte di sempreverdi, era quindi un modo per propiziare il ritorno della terra fertile. Perfino la tradizione di accendere candele, spesso associate a queste corone, era già intesa come un’offerta al dio Saturno per favorire il ritorno della luce e della fertilità.
Con il Cristianesimo è stato storpiato anche tutto questo, e così la corona è stata assimilata con la scusa di rappresentare la vita eterna dell’al di là, o l’infinito amore di Dio. Quanto all’uso delle candele, pare che sia stato il pastore protestante Johan Hinrich Wichern (1808 – 1881) il primo a proporre di associarle alla corona per scandire le settimane che mancano alla Natività; proposta che, col tempo, fu assecondata da tutto il mondo cristiano, è bastato rigirare la frittata stabilendo che simboleggiano la luce di speranza portata da Cristo.
Il ceppo, un fuoco per accendere luce e speranze
Quanti di voi, di quelli che hanno un bel caminetto in casa, accendono un focolare quando si ritrovano con amici e parenti per pranzo o per cena? E quanti ancora lo attizzano il giorno della Vigilia e cercano di farlo ardere per dodici giorni fino all’Epifania? Scommetto in molti. E scommetto anche che vi sarete sempre detti che, più che altro, si fa per riscaldarsi, e per farlo con un modo “alternativo”, speciale quanto l’occasione del Natale, perché con quel suo sapore di “antico” crea un po’ di atmosfera. Se è così, sul fatto che ci sia qualcosa di antico il vostro intuito ci ha azzeccato, ma forse non avete idea di quanto sia antico.

Il rito dell’accensione di un fuoco è forse fra i più antichi praticati dall’uomo, presente in tantissime culture e in occasione di molte festività. Può avere tanti significati, ma quello più ricorrente lo ricollega al culto del Sole, e quindi proprio a particolari momenti dell’anno come il solstizio d’inverno. Si accendeva con il legno di piante come quercia, frassino, olivo, pino o betulla, a cui si potevano anche aggiungere vischio, edera o agrifoglio. Nella notte del solstizio si accendevano piccoli fuochi domestici o grandi falò all’aperto, attorno ai quali ci si radunava con familiari e conoscenti. La cenere che ne rimaneva, poi, o era conservata fino all’anno dopo, oppure veniva sparsa nei campi.
In tutto questo consisteva la tradizione del “ceppo”. Accendere un fuoco, intorno al quale radunarsi con nella notte più lunga dell’anno, era un modo per propiziare il ritorno della luce e del calore del Sole; il tipo di legno bruciato poteva rappresentare la fertilità (nel caso di un sempreverde), l’anno vecchio che passava (l’agrifoglio), o l’anno nuovo che si preparava (la quercia); poteri magici erano attribuiti alle ceneri, che quindi erano sparse o conservate per favorire la fertilità di campi, animali o membri della famiglia, come segno di buon augurio per l’anno avvenire, o perfino come protezione contro i fulmini e le sventure.
Dall’avvento del Cristianesimo in poi, il ceppo in sé richiama un modo simbolico di riscaldare Gesù bambino appena nato, il fuoco rappresenta la sua opera di redenzione dell’umanità, e il fatto di lasciarlo acceso fino all’Epifania è per celebrare la venuta dei Re Magi.
I regali, una volta, si facevano perfino agli alberi

C’è chi festeggia in famiglia, chi fra amici e chi fra tutti e due. Chi si ritrova per il 25 e il 26 dicembre e chi ci include anche il 24. In ogni caso, festeggiare il Natale è da sempre fatto di rimpatriate, banchetti, giochi, scambi di auguri e di regali, e magari anche di canti e balli. E da dove deriva tutto questo?
Già in occasione di Yule era usanza scambiarsi dei regali, perché era un augurio di abbondanza e fortuna per l’anno nuovo: come io ti porto questi doni, ti auguro che l’anno nuovo te ne porti altrettanti. Dei “regali” sotto forma di cibo e bevande si facevano perfino agli alberi da frutto, in un gesto che aveva lo stesso significato simbolico delle decorazioni, cioè favorire la ricomparsa dei frutti con l’inizio del nuovo ciclo. E forse è proprio da qui che deriva la consuetudine moderna dei regali sotto l’albero, messi da noi o da Babbo Natale.
Durante i Saturnalia romani si imbastivano festeggiamenti sia privati che pubblici, in cui si mangiava, si beveva, si organizzavano balli e intonavano canti. La gente si scambiava una particolare formula di saluto in segno di augurio, “io Saturnalia”, un po’ come oggi ci diciamo “Auguri!”, “Buon Natale!” o “Buone Feste!”. E, proprio come oggi, anche in questa occasione si facevano e si ricevevano regali, chiamati “strenae” (da cui la “strenna” moderna), che di solito consistevano in cibo, vasellame, candele, figurine di cera (sigillaria), o anche regali-scherzo. A volte ci si includevano anche delle piccole pergamene con su scritti dei versi poetici, proprio come facciamo ai giorni nostri con biglietti e cartoline.
Anche tutte queste erano tradizioni troppo belle, troppo naturali, spontanee ed emotive perché una semplice imposizione potesse farle sparire, e così il Cristianesimo si è trovato costretto a mantenerle, tirando fuori una nuova scusa dal suo gigantesco cilindro: anche a Natale va bene scambiarsi regali, proprio come i Re Magi hanno fatto con Gesù, e come lui ha fatto con l’umanità donandole la salvezza.
Odino, San Nicola e Father Christmas: i “babbi” di Babbo Natale
Il Nisse dei Paesi scandinavi, il Ded Moroz del folklore slavo, l’Olentzero della tradizione basca. Ogni cultura del mondo ha da sempre il suo portatore di doni, ma Babbo Natale è quello più diffuso e conosciuto. Alla base di tutto, probabilmente, c’è lo scambio augurale di regali che abbiamo appena visto, ma come si è arrivati da qui a quell’omone anziano, barbuto e corpulento che tutti conosciamo? Quali sono le sue origini? Chi è veramente Babbo Natale?

Il fatto che sia da sempre associato con renne, neve, inverno e Polo Nord non è solo il frutto dell’invenzione di qualcuno, e non è nemmeno perché è stato presto inglobato nelle tradizioni del solstizio d’inverno prima e del Natale poi. Il vero motivo, probabilmente, sta nel fatto che la principale figura a cui si ispira proviene dalle mitologie pre-cristiane delle popolazioni germaniche: è il dio Odino, il Re del pantheon della mitologia norrena. Tipicamente era rappresentato come un uomo anziano, tarchiato, con una lunga barba bianca, che portava un cappuccio, un lungo mantello e una lancia che usava come bastone. Secondo la tradizione, poi, una volta all’anno, nel periodo di Yule, Odino si poneva alla testa della Caccia Selvaggia, un’epica battuta di caccia condotta per cielo e per terra da dèi, guerrieri caduti in battaglia o figure mitologiche ai danni di vari esseri mostruosi. Il Re degli dèi cavalcava in sella a un cavallo grigio di nome Sleipnir, un cavallo ad otto zampe considerato il più veloce del mondo, capace di galoppare su terra, su acqua, su aria e perfino attraverso altri mondi. E così ecco che i bambini, in questa occasione, lasciavano davanti al focolare o fuori dalla porta i propri stivali riempiti di paglia, zucchero o carote, così che Sleipnir potesse sostare e rifocillarsi presso tutte le case; in cambio, in segno di riconoscenza, Odino lasciava nei loro stivali giocattoli, dolciumi o altri regali.
Se Odino è chiaramente la figura principale, un’altra altrettanto determinante è quella di San Nicola (220 – 343): vescovo cristiano della città di Myra (oggi Demre, in Turchia), fu particolarmente apprezzato per l’attenzione e il sostegno che dimostrò nei confronti dei più poveri e bisognosi, specie se bambini; si tramanda una storia in particolare secondo cui fornì una dote a tre ragazze, figlie di un devoto ma povero cristiano, in modo che non fossero più costrette a darsi alla prostituzione.

Le sue gesta lo resero così famoso da far nascere un culto nei suoi confronti, culto che si diffuse ancora di più qualche secolo dopo: nel 1054 la Chiesa Greca Ortodossa dichiarò lo scisma dalla Chiesa Cattolica, mentre nel 1087 la città di Myra fu invasa dai Turchi; così, in quello stesso anno, alcuni mercanti italiani originari di Bari trafugarono alcune reliquie del vescovo dal suo sarcofago e le portarono nella loro città, dove oggi c’è la Basilica di San Nicola; inoltre, durante la Prima Crociata, dei mercanti di Venezia presero con sé il resto delle reliquie e lo conservarono nell’attuale San Nicolò al Lido. Da allora, San Nicola diventò il patrono di mercanti, marinai, bambini, prostitute, arcieri, farmacisti, avvocati, prestanti di pegni e detenuti, nonché patrono di Bari e perfino di altre città europee come Mosca e Amsterdam.
In Olanda in particolare, il suo nome fu presto tradotto in Sinterklaas, e allora come oggi veniva rappresentato tipicamente come un uomo anziano, dalla lunga barba bianca, che portava in mano un pastorale, vestiva abiti vescovili di colore rosso e si spostava in sella a un cavallo bianco. Portava anche con sé un grosso libro con su scritti i nomi dei bambini “buoni” e “cattivi”, ed era accompagnato da aiutanti che scendevano lungo i comignoli delle case per lasciare dei doni a quelli “buoni” (da notare, in tutto questo, le somiglianze con Odino). Nel XVII secolo, la tradizione venne ovviamente importata anche nelle Americhe nella colonia olandese di New Amsterdam, la futura New York, dove dopo la conquista inglese (1664) il suo nome originale cominciò a essere tradotto in Santa Claus.

La terza e ultima figura da cui discende Babbo Natale pare che sia Father Christmas. È una figura popolare inglese, che iniziò ad apparire in alcune illustrazioni del XVI secolo, e che rappresentava lo spirito natalizio, portatore di pace, gioia, buon cibo e atmosfera di festa. Già allora rappresentato come un uomo corpulento, barbuto, vestito con un lungo mantello verde ornato di pelliccia, questa iconografia venne resa celebre dall’illustrazione di John Leech dello “Spirito del Natale Presente”, tratto da “A Christmas Carol” di Charles Dickens (1843).
Il Babbo Natale che conosciamo oggi, quindi, è una figura complessa che è il frutto della mescolanza di almeno questi tre personaggi, e anche di molte aggiunte successive create dalla letteratura. La slitta e una singola renna compaiono per la prima volta nel 1821, nella poesia anonima “Old Santerclaus with Much Delight” pubblicata a New York nel libro “A New-year’s present, to the little ones from five to twelve”. L’aspetto fisico di Babbo Natale, il suo vestito rosso, il sacco pieno di regali e le otto renne con i loro nomi (guarda caso come le otto zampe di Sleipnir), compaiono nella poesia “A visit from Saint Nicholas” di Clement Clarke Moore del 1823, resi molto più celebri nel 1863 dall’illustrazione che Thomas Nast pubblica sulla rivista americana “Harper’s Weekly”. Il primo riferimento al Polo Nord come sua residenza pare che risalga di nuovo a Thomas Nast, in un’illustrazione del 1866, mentre i suoi aiutanti elfi appaiono in letteratura nel 1856, nel libro “Christmas Elves” di Louisa May Alcott. Infine, la nona renna Rudolph, che viene ideata da Robert L. May nel libro “Rudolph the Red-Nosed Reindeer” che pubblica nel 1939.
La vera “magia del Natale” sta in ognuno di noi

Epifania e Carnevale, Pasqua e San Lorenzo, Ferragosto e Ognissanti. E anche tante altre. Il Natale è forse quella principale, ma è solo una delle tante tradizioni con delle origini che sfidano i millenni, e che però sono state assimilate e reinterpretate dal Cristianesimo. Intendiamoci subito: nel corso della storia, non è stata di certo l’unica religione che, una volta affermata, ha assorbito quelle precedenti per sostituirle, e per vedere un esempio basta guardare proprio ai Saturnalia: i Romani li hanno innestati sui Kronia, una festa di origine greca ancora più antica e dedicata a Crono, Titano del tempo che corrispondeva per l’appunto al Saturno romano. Però, resta il fatto che, mentre molti festeggiano il Natale convinti di celebrare una festa cristiana, in realtà si circondano di simboli e rituali legati al ciclo del Sole, delle stagioni e della vita. Dei simboli che, se oggi sono arrivati fino a noi come “cristiani”, è per via del movente più vecchio del mondo: una pura questione di controllo delle masse, che la Chiesa ha cercato di ottenere mettendo la sua firma anche su ciò che suo non era.
C’è chi potrebbe ribattere che, in fondo, la cosa veramente importante è il significato personale che uno attribuisce anche ad un’occasione come il Natale, al di là di quello originale o travisato. O che poco importa, agli occhi di un fedele, che il 25 dicembre sia la vera Natività o meno, basta che ci sia un giorno in cui festeggiarla. Il che è tutto giusto, ma credo anche che le vere origini di tradizioni come il Natale nascondano un messaggio di un’attualità straordinaria, e che riscoprirlo possa contribuire al grande cambio di prospettiva di cui oggi abbiamo tanto bisogno: in un’epoca in cui il profitto di pochi, una produzione di massa e una vita a tutta velocità ci isolano dal mondo, e allo stesso tempo ce lo fanno distruggere, queste tradizioni ci parlano di un tempo in cui l’uomo aveva già intuito ciò che oggi stiamo reimparando. Che la realtà è olistica, che tutto è collegato; che non esiste “uomo e natura”, ma “natura” e basta, perché l’uomo è parte di essa, e continuare a pensare ed agire come se fossimo straordinari non può che portare a dei danni.

E infatti, qual è il profondo significato della festa di Yule? I cambiamenti stagionali che avvengono nell’esterno della natura si riflettono nell’interno di noi stessi, anche se in modo inconsapevole, perciò queste feste legate al ciclo delle stagioni non celebravano soltanto questo ciclo, ma anche quello della nostra crescita interiore. Yule segna quindi l’inizio dell’inverno, la stagione in cui la natura si riposa, si raccoglie, e allo stesso tempo accumula le energie per far germinare i semi caduti in autunno, per prepararsi ad un nuovo risveglio. Allo stesso modo, per noi è il momento più ideale in cui rallentare, riflettere sui risultati ottenuti e meditare sui nuovi obbiettivi che vogliamo raggiungere. È il momento a metà strada fra il riposo e il risveglio in cui, attraverso un dialogo sincero con noi stessi, possiamo piantare i semi del cambiamento e prepararci ad una nuova vita.
Questo è il vero significato che racchiudono tutte quelle tradizioni. Questo è il vero messaggio di Yule. Questa è la vera “magia del Natale”. Nessun “peccato” di cui pentirsi, perché ciò che è natura è giusto, non un errore. Nessuna autorità a cui rimettersi, perché anche noi siamo natura, e la natura non ha padroni, nasce già con tutto quello che le serve per gestirsi da sola. E nessuna preghiera passiva a sedicenti divinità, perché di questa nuova vita gli architetti siamo proprio noi.
Fonti:
- “Ancient Origins” – Mistletoe: From Toxin-Laced Darts to Fertility Symbol
- “Ancient Origins” – Mistletoe, Holly, and Yuletide Cheer: Weaving Natural Elements into Ancient Christmas Customs
- “Ancient Origins” – The Holly and the Ivy: How Pagan Practices Found Their Way into Christmas
- “Ancient Origins” – Ancient Origins of Favorite Christmas Traditions PLUS Those You May Never Have Heard About
- “Ancient Origins” .- What Star is This? The Pagan Origins of Christmas Symbols
- “Ancient Origins” – Baldr: The Shining God Who Shines No More
- “Ancient Origins” – Why is Christmas Celebrated December 25th?
- “Ancient Origins” – The Man Who Was Wednesday: The Norse Origin of Christmas
- “Ancient Origins” – The Ancient Origins of Santa Claus
- “Ancient Origins” – Saturnalia: The December Festival of Joy and Merriment in Ancient Rome
- “Ancient Origins” – Harking Back: The Ancient Pagan Festivities in our Christmas Rituals
- “World History Encyclopedia” – Wheel of the Year
- “World History Encyclopedia” – Saturnalia
- “World History Encyclopedia” – A Medieval Christmas
- “History Collection” – 16 Pagan Christmas Traditions that People Mistakenly Credit to Christianity
- “Storiain.net” – Storia e tradizioni del Natale
- “Il Post” – Perché oggi è Natale, Gesù non è nato quel giorno: c’entrano il solstizio d’inverno, Saturno e un dio del Sole
- “Portalecce” – Origine e significato della Corona d’Avvento. Quattro ceri fino alla luce piena del Natale
- “ICG Churches” – What do we know about wreaths, such as Christmas wreaths? Are they of pagan origin?
- “St.Nicholas Center” – St. Nicholas—nearly everybody’s saint!
- “St.Nicholas Center” – Nicholas is the Patron Saint of: Countries and Regions
- “BBC” – Did the Romans invent Christmas?
- “Encyclopedia Britannica” – Why is Christmas celebrated in December?
- “Encyclopedia Britannica” – Santa Claus
- “Encyclopedia Britannica” – St. Nicholas
- “Encyclopedia Britannica” – Christmas tree
- “Encyclopedia Britannica” – Saturnalia
- “Sapere.it” – I Sigillaria
- “Sapere.it” – Perché si fa l’albero di Natale?
- “Enciclopedia Treccani” – Strenna
- “Enciclopedia Treccani” – Saturnalia
- “Enciclopedia Treccani” – Ceppo
- “The Mistletoe Pages” – Mistletoe Traditions
- “Città della scienza” – L’albero di Natale: simbologia e storia
- “Focus” – Come sono nate le tradizioni del Natale?
- “Laparola.net” – Lc 1, 79
- “Laparola.net” – Lc 2, 32
- “Laparola.net” – Gv 1, 4-9
- “Laparola.net” – Gv 8, 12
- “Laparola.net” – Mt 17, 2

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